“Sono un devoto, un fanatico della memoria degli sconfitti e rivendico con tutte le mie forze la dignità della disfatta” Nel 1968 Wlodek Goldkorn è un ragazzo gettato dal cuore dell’Europa alle strade di Gerusalemme. Con la sua famiglia è costretto a lasciare Varsavia da apolide, da “non cittadino”, e va in Israele per trovare una terra in cui poter essere libero. Da un luogo perduto a un luogo da conquistare. Con un formidabile esercizio della memoria, lo stesso protagonista del Bambino nella neve racconta Israele e Gerusalemme: non solo la città reale, ma anche le altre Gerusalemme, immaginarie e sognate. Riflette sui simboli e sulle identità, su quella sovrapposizione dei ricordi e dei luoghi che ha qualcosa di morboso e artificiale. Parla dello scarto fra l’ideale sionista di creare un ebreo nuovo, pioniere e agricoltore, e la realtà che ha riprodotto il vecchio mondo, popolato dai fantasmi della Shoah. E si dichiara innamorato della lingua ebraica e della grande letteratura israeliana, quella di Amos Oz e di Lea Goldberg. La chiave di questo suo racconto è la nostalgia del futuro, che mette in moto il bisogno di ricostruire un passato denso di dolore e di violenza. Ma pure il desiderio di conoscere e amare, che appartiene a ogni adolescente impegnato nella fatica di diventare uomo.