Dell’anima è stato detto tutto: che è mortale o immortale, che può salvarsi o dannarsi, conoscere la verità o cadere nell’errore. Elevata a dimora di Dio, la si trova nei discorsi degli amanti, a garanzia che il desiderio non è solo desiderio dei corpi. Il suo compito era di nobilitare tutto ciò che nell’uomo “senz’anima” sarebbe apparso poco nobile. Due secoli orsono si pensò che l’anima potesse ammalarsi e richiedere medici dell’anima. Nacquero la psichiatria, la psicoanalisi e la psicologia che tolsero all’anima la sua aureola, e la verità, che Platone per primo aveva ancorato all’anima, smarrì la sua unità per disperdersi nei recinti dei vari saperi. Per Umberto Galimberti è necessario andare al di là delle scienze psicologiche per recuperare l’irrazionale che abita la profondità dell’anima, e ci fa accedere alla radice da cui si dipartono sia la ragione sia la follia. Oggi non conosciamo più l’anima universale che gli antichi ponevano ai limiti dei due mondi, dello spirito e della materia, ma solo anime individuali rese asfittiche dall’incapacità di correlare la loro sofferenza quotidiana con il dolore del mondo. Occorre quindi recuperare la visione degli antichi, che avevano dato un’anima sia all’uomo sia al mondo e nell’armonia delle due anime vedevano accadere quel che nel loro linguaggio chiamavano “bellezza”.