L’opera analizza in modo esaustivo, la genesi, la fortuna e il tramonto degli stradioti, bellicosi mercenari greco-albanesi che combatterono al servizio della repubblica veneziana tra il XIV e il XVII secolo. Cavalleggeri arruolati nella penisola balcanica, combatterono come mercenari al soldo del migliore offerente ma, nonostante ciò, si evince come con la Serenissima ebbero sempre un rapporto speciale che spesso esulò da un mero servizio contrattuale. Il loro armamento era semplice e rudimentale se paragonato a quello di altri mercenari dell’epoca: il loro punto di forza consisteva, infatti, nell’aggressività e nella ferocia che mostrarono in battaglia sin dagli esordi; non va dimenticata, inoltre, l’apprezzata resistenza delle cavalcature. Truppe tendenzialmente indisciplinate, di difficile inquadramento all’interno dei nascenti eserciti nazionali del periodo moderno, seppero tuttavia ritagliarsi un interessante ruolo all’interno delle forze venete, specialmente durante il cosiddetto periodo delle Guerre d’Italia (1494-1559), anche per “merito” di pratiche belliche tanto drastiche quanto, tendenzialmente, inusuali per i canoni europei dell’epoca: ad esempio, la collezione delle teste mozzate dei nemici, appese in qualità di trofeo alle cavalcature. L’inarrestabile avvento delle armi da fuoco sui campi da battaglia moderni comportò la progressiva scomparsa di questi feroci cavalleggeri, ancorati a tattiche belliche perlopiù di “piccola guerra”, divenute ormai obsolete. Il loro nome, dotato di un alone di brutale fascino esotico, continuò tuttavia a persistere nel mondo veneziano anche dopo la loro effettiva scomparsa dai campi di battaglia dove sventolava il gonfalone di San Marco.